sabato 24 marzo 2018

A casa tutti bene


  • Perché dovremmo tutti partecipare a una riunione di famiglia così
  • Perché non si può non riconoscersi in almeno una di queste storie
  • Perché parla della famiglia senza falsità




Un racconto corale, una riunione di famiglia, una villa su un’isola nelle cui stanze si sviluppano le innumerevoli sottotrame dei personaggi; A casa tutti bene, l’ultima pellicola di Gabriele Muccino, risulta essere ben adatta e funzionale per raccontare una storia.

Con l’occasione di festeggiare le nozze d’oro di Pietro (Ivano Marescotti) e Alba (Stefania Sandrelli), capostipiti della famiglia, tutti i parenti si ritrovano sull’isola di Ischia, dimora della vecchia coppia. Dall’unione dei due sono nati Paolo (Stefano Accorsi), Carlo (Pierfrancesco Favino) e Sara (Sabrina Impacciatore).


Paolo è l’artista anticonvenzionale di famiglia, appena tornato da un viaggio in bici fino alla Terra del fuoco, separato dalla moglie e che ha strane attenzioni per la cugina Isabella (Elena Cucci).
Carlo, divorziato dal primo matrimonio con Elettra (Valeria Solarino), è in costante litigio con Ginevra (Carolina Crescentini) l’attuale moglie nevrotica, gelosa e isterica.
Sara finge di non vedere la crepa nel rapporto col marito Diego (Giampaolo Morelli), arrivando a proporgli di fare un altro figlio insieme.


Sandro (Massimo Ghini) interpreta un malato d’Alzheimer, al cui fianco c’è Beatrice (Claudia Gerini) che vuole abbandonarlo per ritrovare un compagno sano con cui invecchiare.
Riccardo (Gianmarco Tognazzi) è lo squattrinato della famiglia, disperato e patetico, inadatto e inopportuno ma insieme alla compagna Luana (Giulia Michelini), alla fine risultano essere i più veri, caldi e memorabili.


A causa di un improvviso maltempo, che impedisce ai traghetti di ripartire dall’isola, i festeggiamenti si prolungano e si trasformano in una prigionia di più giorni: il fragile confine che separa la quiete dalle liti è adesso labile e l’inquietudine, le urla, l’isterismo vengono rese pura sostanza grazie al vorticare della macchina da presa.


Nonostante il grande numero di attori, Muccino mantiene un equilibrio non facile, riuscendo a caratterizzare ognuno di essi in maniera non piatta anche se a tratti un po’ stereotipata.Il regista vuole chiaramente bene ad ogni personaggio e lo racconta assecondandone passioni e idiosincrasie senza abbellirli, rendendoli verosimili e utili alla composizione di un disegno generale. I personaggi sono qui le tessere di un mosaico, i frammenti di uno specchio che restituisce le varie angolazioni dell’essere famiglia.



Gli attori litigano, piangono, gridano, a tratti si picchiano, ma più di ogni altra cosa parlano. Risulta così essere questo, un film di sceneggiatura, più di quanto non fossero i precedenti.Primeggiano la sincerità, la tangibilità delle fragilità urlate, delle nevrosi ansimanti, delle speranze per il futuro. Muccino non gli offre alcun alibi perché non attribuisce alcuna colpa.Perché la famiglia è il luogo da cui ti allontani ma poi ritorni, dove sei più vero. Quello che i veri romantici cercano nonostante sappiano che falliranno, come dice scherzando Pierfrancesco Favino.La sceneggiatura, di cui Muccino è coautore con Paolo Costella, la scelta dell’unità di luogo, sottolineano la forte claustrofobia emotiva e visiva, l’immaturità, le fughe dalla realtà, dai sentimenti tout court.


Li trovo così inquieti, i miei figli”, è la frase che a un certo punto pronuncia la Sandrelli, prima di addormentarsi. Con un’alzata di spalle, il marito le risponde “Troveranno la loro serenità”; che un po’ è come dire ‘c’est la vie!’, bisogna sapersela cavare per non soccombere. Una Sandrelli, spesso disorientata da ciò che conosce bene ma che finge di ignorare, che rivela essere uno dei personaggi più solidi che non si lascia smuovere dalla tempesta, che ha imparato a sopravvivere con l’esperienza in un mondo che si regge su falsi equilibri, sentimenti contraddittori e vite depresse. In una parola, la famiglia.





La splendida fotografia di Shane Hurlbut e il montaggio di Claudio Di Mauro incorniciano la visione del loro autore, riempendo di senso e di sentimento spazi, visi, scorci, tempi.



Le musiche di Piovani riempiono forse troppo lo spazio, essendo capaci, con la loro presenza di scatenare ed eccitare gli attori, portandoli agli eccessi, ad essere travolti dalla narrazione visiva, non lasciando spazio ai necessari vuoti di sospensione.

Le vite normali non esistono”.

Voto: 6,5 su 10
Ca. Mo.



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