martedì 17 aprile 2018

The Happy Prince: Rupert Everett racconta l’amore di Oscar Wilde


  • Per la bravura di Rupert Everett
  • Perché Oscar Wilde non può essere conosciuto solo per Il ritratto di Dorian gray
  • Per il linguaggio poetico che pervade tutto il film

Rupert Everett attore, sceneggiatore e regista di questo film, ha avuto molte difficoltà a trovare I fondi economici per poter girare “The Happy Prince” e guardando la pellicola si capisce il motivo. Si tratta infatti di un film coraggioso, fuori dagli standard hollywoodiani, che non risparmia niente allo spettatore, d’altronde la poesia è talvolta dolore, poca lucidità e molta passione.

The Happy Prince racconta gli ultimi anni di vita di Oscar Wilde. Il poeta inglese (interpretato da un quasi irriconoscibile Everett) è uscito dopo due anni di prigione per sodomia, colpevole di aver amato pubblicamente il giovane lord Alfred Douglas (Colin Morgan). Uscito di prigione inizia un esilio fatto di alcool, sesso e droga tra la Normandia, Parigi e Napoli, dove il suo amico e amante Robert Ross (Edwin Thomas) tenterà invano di tenerlo fuori dai guai e soprattutto dal ritorno del giovane lord. Un’ottima fotografia rappresenta a pieno le città toccate dall’esilio di Wilde, mostrandone le caratteristiche e le meschinità dell’epoca, in ritratti particolareggiati come se fossero quadri diversi di ogni singola ambientazione. Il film affronta anche il tema del rapporto tra Wilde e la ex moglie Costance interpretata da un’altrettanta irriconoscibile Emily Watson e i suoi figli, un rapporto segnato da sensi colpa e vigliaccheria.

Poetico, struggente, decadente, appassionato e maledetto The Happy Prince affronta il tema della condanna dell’amore omosessuale, ponendo al centro la figura di Oscar Wilde. Un personaggio di spicco dell’epoca che passa da essere un poeta e commediografo di fama internazionale a essere un reietto e deriso dalla società. Un tema, quello della discriminazione dell’amore omosessuale, sicuramente ancora attuale nella vita odierna come nell’Europa del 1800. Rupert Everett si rivela un regista coraggioso oltre che un ottimo attore, capace di smuovere i sentimenti più contrastanti negli occhi degli spettatori.

M.G.

mercoledì 4 aprile 2018

“Brunori a teatro. Canzoni e monologhi sull’incertezza”


  • Perché viviamo in una vita liquida
  • Per provare un'emozione unica
  • Perché è un quadro preciso dei nostri tempi


Questo è il titolo dello spettacolo teatrale che si poggia sull’ album “A casa tutto bene” di Dario Brunori.  Qui, musica e riflessioni si intrecciano sul letto delle note della sua band; brani cantati e intermezzi parlati si alternano e descrivono il mondo contemporaneo con uno sguardo lucido che coniuga profondità e leggerezza, sacro e profano. La poetica del cantautore calabrese, passa da intelletto, cuore e pancia; quest’ultima è la caratteristica fisica che lo contraddistingue, come lui stesso scherza.

Si parla di paura e di coraggio, di salsicce e sushi brasiliano, di Lamezia e di Milano, dell’ Aspromonte calabrese e della vita rocciosa, ancorata alla terra e alle certezze di altri tempi e della vita liquida della grande metropoli milanese e dell’incertezza del futuro che travolge l’uomo moderno.


Dario Brunori in questo spettacolo si mostra cinico, a “nudo” con le sue paure e con le sue riflessioni profonde che lo connotano più che mai come uomo di pensiero, come intellettuale, mai consolatorio ma che vuole in fondo dirci: “Arrivederci tristezza”.

I monologhi risultano essere concisi, comici, con una vena critica poco velata, in complesso si nota un’ottima gestione dei tempi teatrali e dello spazio scenico.

“Sono canzoni che hanno a che fare con la necessità di affrontare le piccole e grandi paure quotidiane e con la naturale tendenza a cercare un riparo, un rifugio, un luogo in cui sentirsi al sicuro” a detta dello stesso Dario.


Classe 1977, Brunori Sas nasce artisticamente nel 2003 con il collettivo virtuale Minuta. Nel 2009, la svolta cantautorale con il nome d’arte Brunori Sas. Il suo album d’esordio, Vol. 1 è costituito da brani semplici e diretti, ricchi dell’immaginario caratteristico degli anni ’90. Vi si incontrano elementi squisitamente popolari: palloni bucati, ragazzi di provincia, il mare d’inverno, le cotte d’agosto. Dopo due anni e un tour in giro per la penisola, Brunori pubblica, nel 2011, Vol. 2, dalla scrittura amara e speranzosa, focalizzata non più sul racconto autobiografico, ma sulla vita altrui. Il successo sorprendente del 2013 con il nuovo disco – Vol. 3.


A gennaio 2017 risale “A casa tutto bene”, disco d’oro e il cui tour ha registrato sold out in tutte le 18 date del calendario: un percorso tra riso e pianto in cui l’unica certezza è proprio l’incertezza che ci accompagna nella vita quotidiana.

Ca. Mo.

sabato 24 marzo 2018

A casa tutti bene


  • Perché dovremmo tutti partecipare a una riunione di famiglia così
  • Perché non si può non riconoscersi in almeno una di queste storie
  • Perché parla della famiglia senza falsità




Un racconto corale, una riunione di famiglia, una villa su un’isola nelle cui stanze si sviluppano le innumerevoli sottotrame dei personaggi; A casa tutti bene, l’ultima pellicola di Gabriele Muccino, risulta essere ben adatta e funzionale per raccontare una storia.

Con l’occasione di festeggiare le nozze d’oro di Pietro (Ivano Marescotti) e Alba (Stefania Sandrelli), capostipiti della famiglia, tutti i parenti si ritrovano sull’isola di Ischia, dimora della vecchia coppia. Dall’unione dei due sono nati Paolo (Stefano Accorsi), Carlo (Pierfrancesco Favino) e Sara (Sabrina Impacciatore).


Paolo è l’artista anticonvenzionale di famiglia, appena tornato da un viaggio in bici fino alla Terra del fuoco, separato dalla moglie e che ha strane attenzioni per la cugina Isabella (Elena Cucci).
Carlo, divorziato dal primo matrimonio con Elettra (Valeria Solarino), è in costante litigio con Ginevra (Carolina Crescentini) l’attuale moglie nevrotica, gelosa e isterica.
Sara finge di non vedere la crepa nel rapporto col marito Diego (Giampaolo Morelli), arrivando a proporgli di fare un altro figlio insieme.


Sandro (Massimo Ghini) interpreta un malato d’Alzheimer, al cui fianco c’è Beatrice (Claudia Gerini) che vuole abbandonarlo per ritrovare un compagno sano con cui invecchiare.
Riccardo (Gianmarco Tognazzi) è lo squattrinato della famiglia, disperato e patetico, inadatto e inopportuno ma insieme alla compagna Luana (Giulia Michelini), alla fine risultano essere i più veri, caldi e memorabili.


A causa di un improvviso maltempo, che impedisce ai traghetti di ripartire dall’isola, i festeggiamenti si prolungano e si trasformano in una prigionia di più giorni: il fragile confine che separa la quiete dalle liti è adesso labile e l’inquietudine, le urla, l’isterismo vengono rese pura sostanza grazie al vorticare della macchina da presa.


Nonostante il grande numero di attori, Muccino mantiene un equilibrio non facile, riuscendo a caratterizzare ognuno di essi in maniera non piatta anche se a tratti un po’ stereotipata.Il regista vuole chiaramente bene ad ogni personaggio e lo racconta assecondandone passioni e idiosincrasie senza abbellirli, rendendoli verosimili e utili alla composizione di un disegno generale. I personaggi sono qui le tessere di un mosaico, i frammenti di uno specchio che restituisce le varie angolazioni dell’essere famiglia.



Gli attori litigano, piangono, gridano, a tratti si picchiano, ma più di ogni altra cosa parlano. Risulta così essere questo, un film di sceneggiatura, più di quanto non fossero i precedenti.Primeggiano la sincerità, la tangibilità delle fragilità urlate, delle nevrosi ansimanti, delle speranze per il futuro. Muccino non gli offre alcun alibi perché non attribuisce alcuna colpa.Perché la famiglia è il luogo da cui ti allontani ma poi ritorni, dove sei più vero. Quello che i veri romantici cercano nonostante sappiano che falliranno, come dice scherzando Pierfrancesco Favino.La sceneggiatura, di cui Muccino è coautore con Paolo Costella, la scelta dell’unità di luogo, sottolineano la forte claustrofobia emotiva e visiva, l’immaturità, le fughe dalla realtà, dai sentimenti tout court.


Li trovo così inquieti, i miei figli”, è la frase che a un certo punto pronuncia la Sandrelli, prima di addormentarsi. Con un’alzata di spalle, il marito le risponde “Troveranno la loro serenità”; che un po’ è come dire ‘c’est la vie!’, bisogna sapersela cavare per non soccombere. Una Sandrelli, spesso disorientata da ciò che conosce bene ma che finge di ignorare, che rivela essere uno dei personaggi più solidi che non si lascia smuovere dalla tempesta, che ha imparato a sopravvivere con l’esperienza in un mondo che si regge su falsi equilibri, sentimenti contraddittori e vite depresse. In una parola, la famiglia.





La splendida fotografia di Shane Hurlbut e il montaggio di Claudio Di Mauro incorniciano la visione del loro autore, riempendo di senso e di sentimento spazi, visi, scorci, tempi.



Le musiche di Piovani riempiono forse troppo lo spazio, essendo capaci, con la loro presenza di scatenare ed eccitare gli attori, portandoli agli eccessi, ad essere travolti dalla narrazione visiva, non lasciando spazio ai necessari vuoti di sospensione.

Le vite normali non esistono”.

Voto: 6,5 su 10
Ca. Mo.



lunedì 19 marzo 2018

The Shape of Water


• Per la storia d’amore fantasy
• Per la colonna sonora
• Per la denuncia della società conformista americana degli anni 50




L’uomo e il mondo marino, una storia d’amore tra diversi, la bellezza e il mistero del mondo fantasy, l’orrore e il forzato conformismo; questi sono i leitmotiv di Shape of Water, vincitore del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia e che si è aggiudicato quattro Premi Oscar, su tredici candidature ricevute, per il miglior film, il miglior regista, la migliore scenografia e la migliore colonna sonora.

Siamo in piena Guerra Fredda, nella Baltimora della metà degli anni cinquanta. In un laboratorio scientifico lavorano come donne delle pulizie Elisa (Sally Hawkins) e l’afroamericana Zelda (Octavia Spencer). Elisa non parla, è diventata muta in seguito all’asportazione delle corde vocali, episodio traumatico della sua infanzia di cui porta i segni visibili sul collo.


Il colonnello Strickland (Michael Shannon) porta all’interno del suddetto laboratorio un anfibio dalle sembianze antropomorfe per poterlo studiare e per utilizzarlo contro i russi. Il dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), spia russa, lavora nel laboratorio e cerca di scoprire le potenzialità dell’anfibio che sembra primeggiare per resistenza e fisicità ad un normale essere umano.

Elisa è una donna solitaria, la cui vita è scandita dal lavoro e dalle chiacchere con il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), artista omosessuale e discriminato sul lavoro che parla il linguaggio dei segni e con il quale ha un dialogo aperto. Per molti tratti il loro rapporto ricorda quello di Nino e Amelie ne Il Favoloso Mondo di Amelie, per l’eccentricità e l’oniricità dei dialoghi, per lo sguardo delicatamente spensierato e di spessore di Elisa.

Elisa incontra per caso l’anfibio e riesce a stabilirci una comunicazione nonostante le diversità e le vasche criogeniche che lo tengono prigioniero. Di nascosto, in un silenzio asettico ma accompagnato dolcemente dalla musica dei vinili che Elisa sceglie con cura per i loro brevi incontri, la donna si innamorerà della creatura, fino a quando l’anfibio torturato e ferito, sta per essere ucciso. Elisa prende allora la pericolosa decisione di farlo fuggire e di liberarlo nell’Oceano, ma il dispotico Strickland indaga e si mette sulle sue tracce.



Questa pellicola parla di amore ma anche di relitti, di emarginati: emarginata è Elisa per il suo forzato mutismo, l’anfibio per la sua mostruosità, per la natura apparentemente pericolosa. Relitto è Zelda, con la sua pelle nera che combatte per poter “essere” sia nella società che a casa, dove la aspetta un marito che non si alza mai dal divano. Relitto è Giles che deve nascondere la sua omosessualità e lo stesso colonello che per adattarsi al conformismo americano, al benpensare borghese, per provare il suo valore, per assicurarsi una vita migliore e lontana da Baltimora, non può fallire e deve ritrovare a tutti i costi la creatura scomparsa.


Del Toro in questa pellicola si schiera a favore del diverso, marcandone le debolezze che si svelano essere in realtà i punti di forza dei personaggi, tutti antagonisti dello spietato Strickland, l’unica vera bestia del film.

La fotografia predilige una scelta cromatica a tinte blu: l’elemento predominante è lo scuro, la notte, l’acqua in cui si sviluppa tutto il lato poetico e visionario della trama.

Le musiche, di uno straordinario Alexandre Desplat, sono oltremodo calzanti: si alternano momenti di oniricità, di gioco, a silenzi opprimenti e carichi di tensione, al suono liquido dell’acqua dove tutto è ovattato e lontano ma dove anche la pulsione sessuale è libera della gravezza metaforica, dove l’immaginario mitologico si scontra con il marciume della società moderna.

“Noi non siamo niente se non facciamo niente” da Shape of Water.

Voto: 6,5/10

Ca. Mo.